Frames Blog Federico Serrani

6 domande a…Alberta Romano

1 Marzo 2023

di Alessandra Lanza, in arte @ale_theia

 

Alberta Romano è una storica dell’arte e curatrice di arte contemporanea, ha 31 anni e da quasi 4 anni vive e lavora a Lisbona, dove cura il programma espositivo della Kunsthalle Lissabon, una delle istituzioni artistiche non profit più interessanti nel panorama europeo. 

 

Se non avessi fatto la curatrice cosa avresti fatto/oggi cosa staresti facendo, e perché?

In un universo parallelo oggi lavorerei sicuramente in Rai, idealmente per Blob durante tutto l’anno e per Techetechete’ durante l’estate. Sarei una scandagliatrice attenta delle teche Rai, che, nel profondo del cuore vorrebbe passare a Mediaset per tuffarsi a capofitto anche negli archivi Fininvest. Il perché è semplice. Ho sempre amato visceralmente la televisione generalista che mi ha cresciuta, ma fino a pochi anni fa non venivo mai presa sul serio quando ne parlavo, ad oggi, tornando indietro molto probabilmente trasformerei anche quest’altra passione in lavoro. 

 

Per te che cos’è l’arte? 

Per me arte è sapere esprimere concetti importanti per lo sviluppo della società in cui viviamo in maniera intelligente, sagace e ovviamente anche godibile.  Per il lavoro che faccio tendo a occuparmi maggiormente di arte visiva (pittura, scultura, video, installazioni, etc.), ma senza ombra di dubbio arte può essere anche una canzone che arrivi al pubblico grazie a un motivo facile da ricordare e che, ascolto dopo ascolto, porti a riflettere su tematiche importanti attraverso le parole che ne compongono il testo. A volte l’arte visiva richiede un po’ più di concentrazione e conoscenza, ma questo non perché l’arte contemporanea sia necessariamente più complessa di un testo di un cantautore, anzi, spesso possono affrontare temi simili, ma l’arte lo fa con un linguaggio del quale bisogna conoscere la storia e nei confronti del quale, invece, nel corso degli anni si è incentivata più facilmente la derisione che uno studio serio delle sue sfaccettature. 

 

Qual è la mostra/rassegna che hai curato che più rappresenta il tuo modo di “prendersi cura” dell’arte? 

Prendermi cura della buona riuscita di una mostra e/o di progetto artistico è qualcosa che, la maggior parte delle volte, coincide con il mettere a disposizione dell’artista tutto ciò che lo farà sentire a suo agio. Posso citare un esempio abbastanza recente che è quello della mostra personale di Tamara MacArthur che abbiamo ospitato in Kunsthalle Lissabon a settembre 2022. Il lavoro dell’artista si è sempre focalizzato sulla costruzione di scenari onirici, realizzati con cartapesta, legno e altri materiali molto semplici, che, però, nelle sue mani, diventano rifugi che l’artista abita durante le sue performance. In Kunsthalle Lissabon Tamara ha deciso di costruire uno scenario montuoso di cartapesta a grandezza naturale che anche il pubblico fosse in grado di abitare. Per farlo ci ha impiegato 4 settimane, durante le quali io, e i miei colleghi abbiamo messo a disposizione di Tamara tutto il nostro tempo, valutando insieme all’artista tutte le soluzioni strutturali per far sì che un’installazione così imponente e al tempo stesso fragile potesse accogliere un grande flusso di persone. Ma “prendersi cura” in quelle settimane ha coinciso anche con pranzi rilassanti e passeggiate distensive durante le quali chiacchierare del più e del meno con Tamara e prendersi una pausa da un’installazione così immersiva.Lo stupore e la commozione, quasi infantile, che riempiva gli occhi del pubblico quando si trovava di fronte alla grande installazione di Tamara MacArthur è stata la dimostrazione che da un clima disteso e sereno possono nascere solo grandi soddisfazioni.

Che città è Lisbona per te, e lavorare all’estero ha cambiato la tua visione del tuo lavoro e dell’arte?

Lisbona è una città tranquilla che mi ha insegnato il potere della calma e del riposo. Quando lavoravo a Milano non ho mai avuto questo privilegio. Qui ho imparato ad apprezzare gli aspetti migliori della calma, ovvero proprio quelli che mi consentono di essere più serena e più produttiva quando c’è da esserlo. Tuttavia vivere all’estero mi ha anche dato una delle consapevolezze più tristi che una persona innamorata della cultura del proprio Paese possa avere. Ad oggi sono abbastanza sicura, infatti, che se domani decidessi di tornare in Italia non troverei da nessuna parte un lavoro che, a soli 31 anni, mi garantisca uno stipendio decorosissimo, quasi totalmente pagato dal Ministero della Cultura italiano, che mi consenta di scegliere gli artisti con cui lavorare e che il tutto possa avvenire in un’istituzione consolidata senza alcuno scopo di lucro.

 

Un film, una mostra, un libro, qualsiasi opera d’ingegno che ti ha ispirato ultimamente e che consigli (e perché)?

Come libro non smetterò mai di consigliare “L’arte della Gioia” di Goliarda Sapienza. Se lo includessero tra le letture scolastiche, avremmo un Paese migliore.

Invece come mostra mi sento di consigliare la visita alla Kunsthal Ghent in Belgio. Più che una semplice mostra si tratta di un esperimento, ispirato dagli scritti del designer ed educatore Prem Krishnamurthy che si concretizza in una mostra senza fine, l’Endless Exibition appunto, e che si basa su un semplice principio “a partire da oggi, ogni opera, fiera d’arte e mostra allestita dovrà essere permanente, rimanendo in mostra per sempre”.

Per dare forma a questa idea la Kunsthal Ghent ha deciso di creare un museo permanente per la città in cui ogni nuova opera commissionata dall’istituzione andrà ad aggiungersi alla precedente sollecitando così, negli artisti e nei curatori, lo sviluppo di un forte spirito di adattabilità, ma anche e soprattutto una maggiore consapevolezza della sovrapproduzione che oggigiorno sembra aver investito anche il settore culturale. La tangibile sovrapposizione delle opere, infatti, favorisce un naturale rallentamento nella frenesia produttiva e garantisce, al contempo, un lavoro più consapevole, più piacevole e meno soggetto allo stress causato dalla iper-produzione frenetica.

 

Ultima domanda: una previsione per il futuro? 

Sono veramente una frana con le previsioni, di qualsiasi tipo. Forse perché mi piace troppo credere alle mie piccole utopie, che in fin dei conti non riesco a concentrarmi sulle previsioni più plausibili. Ad esempio, sapevo che Mengoni avrebbe vinto il 73esimo Festival della Canzone Italiana, ma non riuscivo a non fantasticare su come sarebbe stato bello se la maggioranza degli italiani avesse amato Colapesce e Di Martino come li ho amati io. Insomma mi perdo via nelle fantasie e non sono buona a fare previsioni. 

 

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