
La fotografia come ricerca della felicità. Riflessioni su (di noi, grazie a) Jacques Henri Lartigue
2 Settembre 2020
Parole di @ale_theia
Caro viaggiatore, perché fotografiamo?
Per ricordare meglio, per ritrovare qualcosa o qualcuno del presente nel prossimo futuro, per collezionare o catalogare? Qualcuno potrebbe rispondere: per condividere, per regalare, per far conoscere e raccontare. Per informare, documentare un cambiamento. O per non lasciare andare? Per vivere una seconda volta. Fa bene porsi queste domande, ogni tanto. Riflettere su un’abitudine consolidata. Anche grazie all’ispirazione di chi ci precede di quasi un secolo.
Di recente sono stata a Venezia, per scoprire se con qualche visitatore in meno mi avrebbe offerto un’immagine e un’atmosfera diverse tra i suoi canali e le calli strette solitamente affollate di turisti. Ho scoperto che la desolazione metafisica dei primi mesi del 2020 narrata dagli abitanti e dai giornali non esiste più tra le vie del centro, e che è ancora obbligatorio perdersi, anche se il ponte di Rialto non è mai stato così facile da attraversare. Alla ricerca di un po’ di tranquillità, salutato San Marco, ho preso allora il vaporetto che salpa dalle sue rive per toccare in pochi minuti prima l’isola di S.Giorgio e poi la Giudecca. La prima fermata è di fronte alla Casa dei Tre Oci, il bel palazzo che prende il nome dalle finestre che affacciano sulla città che si staglia al di là dell’acqua.

In mostra in queste settimane, e fino a gennaio, ci sono le immagini di Jacques Henri Lartigue, fotografo francese nato nel 1894 e testimone di gran parte del Novecento, in un’esposizione che mantiene le promesse del suo titolo, “L’invenzione della felicità”. Per il Lartigue bambino, che incontra la macchina fotografica a 7 anni, dono paterno, la fotografia è da subito il prolungamento della propria immaginazione, un modo per sperimentare e catturare qualcosa che a occhi umani sarebbe altrimenti negato; per quell’enfant prodige, com’è stato definito poi, ma anche per il Lartigue adulto, come fosse una missione, è un piccolo miracolo che gli permette di conservare quei momenti, appunto felici, che popolano la sua vita agiata. E se già ogni fotografia è selezione di una porzione di realtà, Lartigue opera un’ulteriore cernita, e sceglie di trattenere solo ricordi positivi, spensierati e insieme carichi di un’intensità di cui possiamo percepire l’eco.
Lartigue fece ciò che nessun fotografo aveva fatto prima e che nessuno fece dopo: fotografare la propria vita. (Richard Avedon)
Se oggi per la maggior parte di noi la fotografia è diventata la trasposizione della nostra vita in cosa pubblica, in cui il bello viene incorniciato, se non proprio costruito, per uno scatto che non resta immortale, dato in pasto in un flusso ininterrotto a chi ci segue mentre ci accontentiamo, pigri, delle funzionalità all’”accadde oggi” e di memorizzarle in un hard disk, Lartigue ha scattato fotografie della sua vita per raccoglierle in album privati, circa 200. Non immaginava probabilmente, lui che coltivava il sogno mancato di fare il pittore, quale sarebbe stato il loro destino, cent’anni dopo. Pagine fitte di annotazioni e disegni, che raccontano affetti, amori – per la famiglia, per lo sport, per il movimento – riempite da un uomo ignaro che, un giorno del 1963, alla vigilia dei 70 anni, sarebbero state esposte al MoMa di New York in una personale per volontà di John Szarkowski, e che Avedon le avrebbe trasformate a ogni costo in un libro che l’ha fatto conoscere al mondo, Diary of a century.

È questa mancata volontà di esibire che fa di molte delle immagini del fotografo, in gran parte in bianco e nero, ricordi capaci di affascinarci e di diventare un po’ anche nostri, strappando spesso un sorriso e insinuando in noi quella leggerezza che in maniera quasi didascalica traspare dalla sfida alla gravità dei suoi soggetti, ma anche dallo sguardo sempre delicato di Lartigue.
“Lartigue,” mi racconta Denis Curti, curatore della Casa dei Tre Oci e della mostra, “voleva semplicemente raccontare dei suoi momenti felici. Credo sia uno dei motivi per cui la mostra piace tanto: ti fa capire come la fotografia come strumento può diventare uno specchio.” Szarkowski aveva scritto un libro per una mostra sui fotografi americani dal titolo Mirrors and windows: American Photography since 1960, in cui aveva diviso i fotografi in due categorie: quelli che impiegano la fotografia per guardare loro stessi e capire chi sono, e quelli che la usano per raccontarci il mondo, come fossero finestre. “Lartigue, con la sua mostra, all’epoca aprì in qualche modo a una nuova fotografia, spezzando quelle categorie per arrivare a questa sintesi.”

Vien voglia di guardare il mondo coi suoi occhi, di far fotografia per i suoi stessi motivi, nella speranza di non distrarci troppo di fronte a tutto ciò che di bello potrebbe capitarci. Vien voglia di cercare la felicità.
Foto in copertina: Dani Lartigue, Aix les Bains, agosto 1925