Frames Blog Federico Serrani

Capa a colori

1 Novembre 2021

Quando parliamo di Robert Capa pensiamo immediatamente alla fotografia di guerra in bianco e nero. Il reporter ungherese, nato a Budapest nel 1913 e naturalizzato statunitense, documentò coi suoi reportage – fino alla sua morte nel 1954 mentre seguiva la prima guerra d’Indocina insieme alle truppe francesi, quando calpestò una mina – i maggiori conflitti bellici dell’epoca: dalla guerra civile spagnola, alla seconda guerra mondiale tra Africa ed Europa, sbarco il Normandia e liberazione di Parigi compresi. 

Abbiamo visto più di una volta i ritratti di soldati feriti e bendati, a bordo di carri armati, armati fino ai denti nelle zone di conflitto, morenti, esultanti all’interno dei villaggi italiani liberati. Quelle forse sono le prime immagini che ci vengono alla mente quando lo nominiamo. Subito dopo, pensiamo all’agenzia fotografica Magnum, fondata nel 1947  nsieme ai colleghi Henri Cartier-Bresson, David Seymour, Georges Rodger e William Vandivert, anche loro noti soprattutto per il loro bianco e nero. Certo, il primo rullino a colori era arrivato nel 1936 e non aveva ancora performance ottimali, ma in quei 18 anni Capa lo usò per diverse sperimentazioni.

 

Riscoprire le immagini a colori di Capa, sì anche di soldati, a bordo di navi o in marcia, ma che ritraggono anche la neve di Megève solcata da sci e slittini con sguardi e sorrisi spensierati, le spiagge e le onde di Biarritz durante il sole estivo, il profilo perfetto di Ingrid Bergman, con cui il fotografo ebbe una relazione d’amore, sul set e durante i momenti di backstage di “Notorious”, la pellicola di Alfred Hitchcock del 1946, o Ava Gardner, è un piacere per gli occhi. E ancora le gite fuori porta con Ernest Hemingway e la sua famiglia.

“Capa in color”, curata dal Centro Internazionale di Fotografia (ICP) di New York e in particolare da Cynthia Young, curatrice della collezione del maestro, è passata prima dai Musei Reali di Torino, e ora è ai Musei Estensi di Modena, fino al prossimo 13 febbrai. Allestita per la prima volta a New York nel 2014 per il centenario (e uno) della sua nascita) è una di quelle mostre che meritano di essere viste, non solo per la bellezza indiscutibile delle immagini, oltre 150, insieme a lettere personali, appunti e le riviste originali su cui furono pubblicate, dal Time a Picture Post, da Illustrated a Epoca. Merita soprattutto perché ci offre uno spaccato della società del Dopoguerra che a colori assume tutto un altro sapore.

 

Come scriveva Fabio Severo nel 2013 in occasione di quel centenario, «Capa è stato il primo a sostituirsi ai nostri occhi, a donarci il surrogato d’esperienza della fotografia per darci l’illusione di essere più vicini agli eventi». E per noi che ragioniamo a colori da quando siamo nati, queste immagini ci sembrano ancora più familiari – e insieme eccezionali. 

«Capa – scrive ancora Severo – amava definirsi un fotografo di guerra che sognava di rimanere disoccupato, ma poi venivano i momenti in cui era costretto ad accontentarsi di lavori ordinati, come raccontare i resort di montagna sulle Alpi, gli studios a Hollywood o il Tour de France, lacerandosi per il suo bisogno di vivere emozioni più vere, più intense. Eppure per un fotografo innamorato della sua parabola potrebbe essere più utile studiare quei lavori, piuttosto che le innumerevoli pietre miliari che ha prodotto viaggiando da un conflitto all’altro: almeno osservando quegli scatti di ciclisti sdraiati sul fieno o paesaggi innevati si confronterebbe soltanto con il linguaggio e le scelte di Capa fotografo, senza essere schiacciato dall’enormità delle imprese compiute da Capa uomo, frutto di una vita molto particolare e di un mondo molto diverso che forse non si ripeteranno mai più». 

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