Frames Blog Federico Serrani

Dal selfie al sublime

30 Luglio 2023

di Jasmina Trifoni

 

mikeyk ha 4,7 milioni di follower su Instagram. Come fotografo non è un granché, e non sono un granché interessanti i soggetti che posta. Ci sono parecchie foto del suo cane, dei suoi cibi preferiti (su tutti, vince la crêpe alla Nutella), persino della confezione di pastiglie antiacido che prende dopo aver esagerato con i dolci. mikeyk, però, è una celebrità: è stato lui, il 17 luglio 2010, a pubblicare la prima foto, per quanto parecchio brutta, della storia di Instagram. Prima ancora che Instagram, lanciata nell’ottobre di quell’anno, entrasse nella storia. Del resto, mikeyk è Mike Krieger, il co-fondatore, insieme a Kevin Systrom, della app che ha cambiato il mondo delle immagini.

La prima foto pubblicata da mikeyk su Instagram

Dopo due mesi dal lancio, Instagram aveva raggiunto un milione di utenti, diventati dieci milioni un anno dopo. Oggi si stima che ogni giorno vi vengano aggiunte 100 milioni di foto, e che ogni utente trascorra quotidianamente almeno 32 minuti a scorrere l’app e mettere like o a pubblicare contenuti. Instagram, poi, ha invaso il mondo dell’arte, con galleristi tra i più importanti del pianeta, come Perrotin e David Zwirner, che hanno scoperto nuovi talenti sulla piattaforma, sostituendola ai forse obsoleti studio-visit. Addirittura, alla fiera Frieze New York del 2015, il booth di Gagosian, la galleria delle gallerie, aveva presentato i New Portraits dell’artista Richard Prince: stampe a grandi dimensioni di screenshot di selfie che altra gente (ignara) aveva postato su Instagram. Allora, qualcuno dei soggetti aveva citato in giudizio Prince, perdendo però la causa, dato che secondo il giudice il lavoro di Prince era “trasformativo” (la caption era stata cambiata) e l’appropriazione aveva come fine quello di mettere in discussione il concetto di diritto d’autore nella società contemporanea. Qualche dubbio, però, sull’onestà intellettuale di Prince resta, e da più parti ci si era chiesto se fosse più furbo l’artista (e il gallerista) o più stupidi i collezionisti
che, a quella fiera, avevano comprato tutti i 37 screenshot della serie, al prezzo di 100.000 dollari ciascuno.

Richard Prince, selfie

Se l’affaire-Prince rappresenta un caso limite, che però dovrebbe far riflettere, vero è che Instagram, e con questa l’ubiquità delle immagini, ha annebbiato nel pubblico la percezione riguardo alla fotografia come mezzo espressivo. Oggi basta postare una silhouette o la flashata di un turista con lo sguardo atterrito di una lepre colpita di fari di un’automobile (per citare soltanto alcune delle immagini che vanno per la maggiore) per sentirsi un grande fotografo, e per farsi pagare per tenere un workshop rivolto ad altri wannabe grandi fotografi. Come era accaduto, tanto per fare qualche esempio italiano, con i tagli di Fontana, le combustioni di Burri o con tutta l’Arte Povera, il concetto di “lo potevo fare anch’io” oggi pervade il medium della fotografia.
Con evidenti ripercussioni sul mercato della grande fotografia fine art. Che, dall’avvento di Instagram a oggi, ha continuato a perdere valore monetario nonostante nello stesso lasso di tempo sia entrata di prepotenza nelle grandi istituzioni museali, finalmente equiparata alla pittura, alla scultura e in generale agli altri medium dell’arte.
Per comprendere le dimensioni del fenomeno basti considerare Andreas Gursky, probabilmente il fotografo più geniale della sua generazione: tra il 2006 e il 2017, 32 delle sue fotografie sono state battute all’asta ad almeno un milione di dollari. 99 cents II, scattata in un discount americano, e una delle sue immagini della serie Pyongyang (uno straordinario lavoro che ha mostrato con tagliente lucidità gli effetti del totalitarismo sugli abitanti della Corea del Nord) sono state entrambe vendute alla sbalorditiva cifra di 2,3 milioni di dollari ciascuna, rispettivamente nel 2006 e nel 2012.

Pyongyang , Gursky

Oggi, invece, per comprare una foto di Gursky bastano, si fa per dire, 400 o 500mila dollari. E lo stesso calo delle quotazioni vale per i lavori di altri grandi artisti, da Wolfgang Tillmans a Shirin Neshrat, da Thomas Struth a Hiroshi Sugimoto. Nell’ultima edizione di Art Basel, lo scorso giugno, era quasi doloroso per chi, come chi scrive, ama e colleziona fotografia, vedere che lavori seminali di autori immensi – come Shinjuku (1962) di Hiro, o quelli di Gordon Parks che hanno raccontato la segregazione della popolazione nera negli USA o, ancora, la serie In the American West (1979-84) di Richard Avedon – avevano quotazioni paragonabili a quelle di opere pittoriche di artisti giovanissimi che si affacciano ora al mercato dell’arte, e dal quale è probabile che scompariranno a breve,
quando finirà la sconsiderata moda per la pittura neo-figurativa che imperversa già da qualche anno.

Shinjuku, Hiro

Insomma, proprio perché siamo invasi dalle fotografie, il pubblico – si tratti degli utenti di Instagram o dei collezionisti d’arte – non riesce più a discernere tra il selfie e il sublime. C’è un universo intero tra lo scatto allo specchio del bagno dell’amica carina agli autoritratti di Cindy Sherman o di Zanele Muholi.

Cindy Sherman

E se la fotografia può abbracciare un’infinità di generi, dal paesaggio all’astrazione passando per la street-photography, la grande fotografia non è mai il frutto di una fortunata coincidenza. È l’espressione di un pensiero, di una volontà espressa di raccontare il mondo attraverso un percorso che va molto al di là di una singola, bella, immagine. Anzi, per un fotografo, un grande fotografo, rappresenta spesso la tensione di una vita intera. Come diceva Ansel Adams, “You don’t take a photograph, you make it”. Dovremmo tutti alzare gli occhi dallo smartphone e studiare.
Dai libri. Dei grandi.

 

(in copertina Richard Prince, 2)

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