
Falsi in cerca d’autore
1 Febbraio 2022
Parole di @ale_theia
Succede oggi nella moda, è successo per secoli e secoli nell’arte: siamo sempre stati abituati a considerare le copie e imitazioni come dei “falsi”, creati in malafede per essere spacciati sul mercato come originali, possibilmente con lo stesso prezzo – e nel caso di un quadro di Picasso è certamente più vantaggioso che per una borsa griffata, compresa una Kelly di Hermes. Anche quella dei falsari è però un’arte, e tutt’altro che banale. Per essere un buon falsario – imitatore, contraffattore o copista – ci vuole più che malafede e faccia tosta: la conoscenza della pittura antica è fondamentale, insieme alle doti artistiche, a grande pazienza e precisione. Quando queste caratteristiche coincidono, insieme a una certa spregiudicatezza, ecco che mercanti, musei, fondazioni, critici, possono essere ingannati nonostante l’esperienza, spesso perché preferiscono credere che ciò che hanno tra le mani sia un pezzo raro, una conquista.

Come si riconosce un falso nell’arte? Spesso basta un dettaglio fuori posto. Come racconta lo storico dell’arte Giorgio Bonsanti a proposito del dipinto la “Bella Simonetta”, attribuito a Botticelli, “Nessuna dama quattrocentesca si sarebbe fatta ritrarre con una ciocca di capelli sfuggitale dall’acconciatura, e che le ricade libera sulla tempia, come vediamo nel ritratto della [Galleria] Palatina [di Firenze]”. “Quasi che la ragazza,” continua Bonsanti, “avesse appena finito di sbrigare le faccende di casa, e non avesse ancora fatto in tempo a rassettarsi prima di posare […] Come che sia, io personalmente non sono riuscito a trovare nemmeno un unico caso di una ‘ciocca libera’ nella pittura dell’ambiente. Ecco allora che il dipinto in questione presenta una serie di caratteristiche che nel loro insieme risultano esemplari nel rimandare alla falsificazione, perché appartengono ad ordini di considerazioni diverse, che convergono nel giudizio finale: sia gravi incongruenze esecutive, non immaginabili in un’epoca in cui gli artisti ci tenevano alla irreprensibilità tecnica, sia altre di natura iconografica.”
Bonsanti se la prende con quegli storici dell’arte che affermano l’autenticità di un’opera nonostante gli indizi contrari: dipende, secondo lui, dal bilanciamento che viene fatto tra la valutazione del proprio occhio e le ispezioni scientifiche, che solitamente un buon falsario riesce a ingannare con numerose accortezze, come l’utilizzo di pigmenti specifici e di tecniche di invecchiamento, come la cottura in forno dei dipinti per diverse ore, che riescono a simulare i segni del tempo. I falsi prodotti dal tedesco Wolfgang Fischer, meglio conosciuto come Wolfgang Beltracchi, “il più grande falsario dei nostri tempi”, autore per truffe da milioni di euro ai musei più famosi del mondo con l’aiuto della moglie Helene, sarebbero circa 300, tra imitazioni di Max Ernst e André Derain, mai di singoli quadri, ma con la creazione di pezzi unici e sconosciuti attribuiti poi ad artisti famosi. La coppia riuscì persino a ingannare colui che si credeva fosse l’esperto assoluto di Ernst, Werner Spies, che definì l’opera che gli avevano presentato come “il quadro più bello che Max Ernst avesse mai dipinto”. A tradirli fu un dipinto attribuito a Heinrich Campendonk, “Quadro rosso con cavalli”, o meglio, un tubetto di pittura bianca utilizzato per realizzarlo, che conteneva una piccola quantità di titanio, non segnalato in etichetta e per nulla coerente con l’epoca dell’artista e l’anno dichiarato, 1914.
Ogni falsario,” scrive ancora Bonsanti, “è figlio del suo tempo, il suo patrimonio iconografico si è formato pertanto sulla riserva di immagini di cui disponeva […] la contemporaneità di un falso dura venti o trent’anni, poi è sorpassato.” In ogni caso, si calcola che ancora oggi oltre 200 dei dipinti di Beltracchi siano ancora presenti in istituzioni d’arte, collezioni private e sul mercato. “Non importa quanti errori ci siano, [i rivenditori] rimangono sempre senza parole di fronte alla provenienza. Spesso guardavano a malapena l’opera,” sostiene l’artista britannico nato nel 1960 Shaun Greenhalgh, che ha venduto molte opere da lui falsificate a partire da quando aveva 13 anni a musei e gallerie di tutto il mondo con l’aiuto dei suoi genitori e suo fratello, che si occupavano rispettivamente delle relazioni con i clienti e della gestione finanziaria. Vennero scoperti e arrestati tutti diversi anni dopo, dopo un tentativo di vendita che aveva insospettito il British Museum e portato Scotland Yard a fare approfondimenti.
C’è il leggendario caso dell’olandese Robert Driessen, che per trent’anni ha realizzato copie di sculture di Alberto Giacometti, diventando ricchissimo e accumulando con i suoi complici circa 8 milioni di euro per mille sculture false, ma non tutti i falsari hanno agito per soldi, quanto per prendere in giro il sistema. L’americano Mark Landis, per esempio, con falsi che vanno dagli artisti più noti del Quattrocento a imitazioni di Picasso, offriva a fondazioni e musei le opere, spacciandole per originali, e presentandosi sempre sotto mentite spoglie, cambiando identità negli anni. Fu scoperto nel 2008 per un acquerello firmato Louis Valtat che il curatore dell’Oklahoma City Museum of Art smascherò. Anche l’inglese Tom Keating, restauratore e falsario, raggirò non per arricchirsi, ma per opporsi a quella “moda d’avanguardia, con critici e commercianti spesso d’accordo per riempirsi le tasche a spese sia di collezionisti ingenui che di artisti poveri”. Il suo scopo era dimostrare l’imperfezione e l’ipocrisia del mondo dell’arte: per questo seminò sempre indizi nei suoi lavori, che avrebbero potuto essere facilmente rilevati dagli esperti che avessero voluto verificare l’autenticità delle opere di Rembrandt, Edgar Degas e Modigliani a cui si era dedicato.
Quello dei falsari non è però un tema relegato agli ultimi due secoli, ma ha radici molto più antiche. Basti pensare a Michelangelo Buonarroti, vissuto a cavallo del Cinquecento, che appena ventenne scolpì la statua di un Cupido dormiente, che fu poi sotterrata per fornirle un aspetto più antico e rivenduta poi a Roma come reperto archeologico di epoca greco-romana al Cardinale Raffaele Riario: la truffa fu scoperta, ma la trovata lo rese famoso come fine scultore, guadagnandogli una chiamata a Roma. Come racconta Giorgio Vasari nelle sue “Vite”, Michelangelo truffò più volte i collezionisti dell’epoca, da cui si faceva prestare disegni di antichi maestri che copiava perfettamente e di cui teneva gli originali, riconsegnando i suoi falsi invecchiati sotto terra e con il fumo di legna verde. Pare che tutto fosse iniziato durante l’apprendistato da Domenico Ghirlandaio: Michelangelo ricevette dal maestro il compito di esercitarsi in pittura eseguendo una copia di un suo dipinto, e lo fece talmente bene da ingannare il maestro nello scambio delle opere. Negli stessi anni, Tiziano copiò il ritratto di Giulio II fatto da Raffaello, un secolo dopo Nicolas Poussin copiò il “Festino degli dei” del Bellini e il “Bacco e Arianna” di Tiziano – e si dice che Raffaello stesso avesse la Gioconda di Leonardo durante il suo periodo fiorentino. Secoli dopo, il pittore realista Edouard Manet ricopiò opere di Tiziano e di Rembrandt per apprendere i loro segreti di pittura sia nel ritratto che nel paesaggio.
Come raccontava un anno e mezzo fa il New York Times, le primissime opere di Edward Hopper, ancora studente, erano copie di altri artisti. Lui, al contrario di altri colleghi non era così bravo. Eppure, in quelle debolezze, ha trovato il suo stile unico.