Frames Blog Federico Serrani

Il sud di Mario Cresci

9 Giugno 2023

di Jasmina Trifoni

 

Matera è, oggi, uno dei luoghi più straordinari della straordinaria Italia. Da quando Mel Gibson ci ha girato un (brutto) film, l’hanno scoperta pure gli americani e, di recente, ha avuto pure l’onore e l’onere, in un difficile anno di Covid, di essere nominata Capitale della cultura. Forse adesso i Sassi sono un po’ troppo “leccati”. Ma meglio così di come sarebbe potuta andare. Le generazioni più giovani non sanno che per colpa – per così dire – di Carlo Levi, l’autore (del Nord) di Cristo si è
fermato a Eboli, negli anni del boom economico del dopoguerra i Sassi di Matera erano “la vergogna d’Italia”, simbolo di un’arretratezza, abbandono e povertà del Sud che doveva essere obliterata anche dalla memoria, prima ancora che sanata.

È questo il contesto in cui Mario Cresci (Chiavari, 1942) arriva in Basilicata – correva l’anno 1967 – e precisamente a Tricarico, un borgo dove dio ha detto buonanotte nei pressi di Matera, con l’incarico di redigerne un nuovo piano regolatore da parte di Polis, un centro di ricerca e pianificazione urbanistica. Approdato alla fotografia, diventandone peraltro un assoluto
maestro, dopo studi di design industriale, Cresci – la cui esperienza artistica era già allora intrecciata con le avanguardie artistiche del decennio, tanto da essere stato il primo “contaminatore” della fotografia con il disegno, la performance, l’installazione, per citare soltanto alcuni dei suoi strumenti espressivi – fece la scelta rivoluzionaria di vivere a Tricarico. E la
Basilicata sarebbe stata la sua dimora fino alla fine degli anni ottanta.  Inaugurata a inizio giugno (e visitabile fino a ottobre) al Museo Maxxi di Roma, e concepita da uno dei più intelligenti curatori
italiani, quel Marco Scotini la cui missione è “l’archiviazione dell’inarchiviabile”, la mostra “Mario Cresci – Un esorcismo del tempo” ne racconta in oltre 350 eccezionali scatti vintage in bianco e nero un’odissea artistica e anche esistenziale che ha anche avuto il merito di contribuire in modo fondamentale ai cambiamenti sociali, urbanistici e culturali di quel territorio. Il suo è un approccio antropologico eretico e concettuale – e i suoi, con una definizione da lui stesso coniata, sono anti-reportage – che dipana le intricate connessioni tra passato e presente, luoghi e identità, artigianato e innovazione, spingendosi molto oltre le rappresentazioni convenzionali del Sud.

Allestita con sapienza e gusto, l’esposizione non ha un andamento cronologico ma predilige la comprensione della poetica di Cresci, il suo originalissimo senso per il valore della memoria, da lui vista come una componente attiva a plasmare storia, presente e futuro. La sua fotografia può essere definita come documentazione creativa: non cattura l’attimo, piuttosto dilata il tempo in una dimensione magica perché, usando le sue parole, “la fotografia è un atto globale, non circoscrivibile al singolo scatto” nonché “uno straordinario mezzo di miniaturizzazione della realtà fisica: in pochi centimetri di pellicola racchiude il tempo reale di lunghi viaggi”. Accanto alle immagini dei Sassi di Matera, spesso accostate a disegni tecnici in potentissimi dittici, tra le serie fotografiche in
mostra catturano per la loro forza totemica le “Misurazioni” che ritraggono oggetti di uso quotidiano e di artigianato povero in modo “scientifico” e spesso contestualizzato in relazione con l’uomo che li usa, così come gli “Interni Mossi”, dove umili ambienti domestici di un mondo contadino vengono dilatati nel tempo da presenze umane volutamente indistinte. Non a caso,
l’immagine mossa di un uomo, che poi è lo stesso Cresci, in un interno descritto soltanto da un orologio a muro, è stata scelta come simbolo della mostra. E sono poi commoventi i gruppi familiari della serie “Ritratti reali” e quelli di “Le fotografie nella fotografia”, dove è evidente il potere consolatorio e il valore identitario del conservare la memoria attraverso immagini di chi
non c’è più.
Pur raccontando di un mondo antico, primordiale persino, il lavoro di Mario Cresci è straordinariamente ed efficacemente contemporaneo. Perché, per dirla con l’artista, “vedere è sempre un rivedere”.

 

 

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