
La fotografia come strumento per ritrovare, per ritrovarsi: Sofia Uslenghi
17 Agosto 2020
La fotografia per molti è soprattutto memoria, un modo per ritrovare qualcosa del passato che nel frattempo è andato perduto, che è ormai lontano o che è semplicemente cambiato. La fotografia ci consente inoltre di muoverci nello spazio, portandoci in luoghi verso cui proviamo moti di nostalgia. La fotografia non solo ci permette di navigare nei ricordi, nostri o che non abbiamo mai vissuto, nel tempo e nello spazio, ma ci permette anche di metterli a confronto con il nostro presente. Nelle opere di Sofia Uslenghi il potere della fotografia di trasportarci altrove e di stabilire connessioni altrimenti indisponibili è più che mai chiaro, e si combina con la pratica dell’autoritratto, che entra sempre in dialogo, e mai in contrapposizione, con la terra d’origine, con le proprie radici, o semplicemente con elementi naturali che con i loro colori e i loro odori richiamano dimensioni altre di senso e di sensi.
Nata nel 1985 a Reggio Calabria da una famiglia proveniente da Gerace, a 4 anni Uslenghi si è trasferita dall’altro lato dello stretto, a Messina. Per frequentare l’università si è poi spostata a Brescia e ancora a Parma, fino all’approdo a Milano, a fine 2019. È a Brescia che Uslenghi ha cominciato a fotografare, seguendo la moda dei primi anni Duemila, quelli in cui l’avvento della fotografia digitale ha cambiato la percezione di questo mezzo, rendendolo accessibile a una massa crescente di persone, poco prima che anche gli smartphone entrassero con prepotenza nella vita di ciascuno, riscrivendo nuovamente le regole di questa disciplina.
La prima fotografia che Uslenghi considera veramente tale risale ai suoi vent’anni ed è già un autoritratto, diventato cifra della sua ricerca. “Quando ho iniziato a tenere in mano la macchina,” spiega, “ho provato a fotografare qualsiasi cosa fosse vicino a me e la cosa più facile su cui sperimentare ero io stessa, perché ero sempre a disposizione.” Uslenghi ha così iniziato a fotografarsi, interrogandosi man mano riguardo alla femminilità e alla percezione del suo corpo, visto anche dall’esterno. “Non avevo un’idea ben chiara di cosa per me significasse appartenere al genere femminile: così ho esplorato la mia concezione, anche in relazione a disturbi alimentari legati a un periodo adolescenziale un po’ turbolento.”
“Sviluppando questo confronto,” racconta Uslenghi, “ho capito che era il tema dei miei primi lavori, che avevo in proposito un mio pensiero. Inizialmente, in mezzo a tante altre voci, forse era confuso e difficile da tirare fuori, ma con il mezzo fotografico è diventato per me più chiaro e molto più indagabile”. Un confronto intimo, di fronte alla macchina fotografica e a se stessa, che non richiede il parere di altre persone, finché le opere non diventano pubbliche, e la liberano dunque di qualsiasi imbarazzo.
Un’operazione del genere, di ricerca, esplorazione, indagine, e insieme di liberazione e riconoscimento, avviene per l’artista tra le mura di casa, con l’aiuto di una parete bianca e la solitudine di cui ha bisogno per concentrarsi, ma soprattutto lasciarsi andare. Ma se lo spazio sicuro delle proprie mura è il luogo in cui si consuma l’atto fotografico, questo stesso sarebbe impossibile a Sofia senza una vita fatta di relazioni sociali e senza riempirsi gli occhi grazie a mostre, viaggi, paesaggi. E anche nei dittici o nelle sovrapposizioni che nascono in post-produzione, Uslenghi non è mai sola. Ecco che il suo corpo nudo di fronte all’obiettivo entra poi in dialogo con elementi altri, con quelle fotografie scattate nelle sue terre d’origine durante le migrazioni estive, oppure con le foto in bianco e nero della nonna quando aveva la sua età, eredità di un tempo altro in cui non ha vissuto, e che non potrà essere restituito altrimenti.
La schiena di Sofia Uslenghi si piega per imitare con eleganza le coste della Sicilia con i loro porti o i paesaggi calabresi che lambiscono le autostrade, prestati con uno screenshot da Google Maps o da Google Street View; la sua mano ricalca le forme dei calanchi calabresi o degli approdi marini; il suo viso si sovrappone ai colori dell’Etna, alle strade di casa, ai pendii rocciosi a strapiombo sul mare, a fiori recisi dalle forme geometriche o a dettagli naturali apparentemente banali, ma fondamentali per completare l’opera d’arte. E se in alcune fotografie lo sguardo della protagonista svanisce, nascosto come il suo corpo dal movimento che ricorda una danza in una lunga esposizione, da un nastro, una ciocca di capelli, in molte delle immagini ne costituisce il punctum, e così l’autoritratto prende vita nei contorni di un occhio dal verde così intenso che ricorda i fondali marini.
parole di @ale_theia