
La leggenda di Eve Arnold
15 Marzo 2023
di Jasmina Trifoni
«E che cosa ci sarebbe di tanto speciale da esserne così orgogliosi?» era stato il commento tagliente della signora Bessie Cohen al reportage “A Baby’s First Five Minutes” realizzato dalla figlia Eve per la rivista Life. Eppure quelle immagini, che – scattate nel reparto maternità di un ospedale di Long Island – raccontano i primi cinque minuti di un neonato, sono forse le più intense, commoventi e poetiche dell’intera, lunga carriera di Eve Arnold, morta nel 2012 quando le mancavano pochi mesi al traguardo del cent’anni di età.
Nata nel 1912 a Philadephia, quinta dei nove figli di un rabbino, Eve Cohen (che avrebbe preso il più neutro cognome del marito, Arnold Arnold, conservandolo anche dopo il divorzio) è stata a prima donna, insieme all’austriaca Inge Morath, a entrare, nel 1951, nella prestigiosa agenzia Magnum. In un’epoca fastidiosamente non troppo lontana in cui lo status di fotogiornalista donna – così come quello delle donne tout court – era marginalizzato e, troppo spesso, guardato con condiscendenza e sospetto, persino in seno alla famiglia, Eve Arnold era stata una pioniera e una rivoluzionaria. E la sua vita avventurosa e il suo lavoro straordinario e straordinariamente eclettico, oggi, sono un inno all’emancipazione femminile.

A celebrarlo in un’imperdibile mostra è CAMERA – Centro per la Fotografia di Torino (fino al 4 giugno) che, con la curatela di Monica Poggi e la collaborazione di Magnum Photos, espone 170 immagini, realizzate nel corso di oltre trent’anni e tutte di una potenza in grado di colpire al cuore e allo stomaco l’osservatore.
Se gli scatti diventati iconici della Arnold diguardano le celebrità del suo tempo, la sua ricerca si era sempre più spostata verso la fotografia sociale e il suo espresso intento era stato quello di “ritrarre il banale cercando di mostrare quanto sia speciale”. Di fatto, colse con magnifica e immaginifica perfezione i momenti banali delle vite delle star, mostrandole in atteggiamenti non divistici, rifiutando l’uso del flash e delle luci di studio e passando ore in camera oscura ad ammorbidire le composizioni e a esaltare una vicinanza emotiva con i soggetti. E, allo stesso tempo, nei suoi reportage, dall’Afghanistan al Sudafrica dell’apartheid, seppe mostrare che le vite apparentemente ordinarie non sono mai banali. Di Eve Arnold, il co-fondatore della Magnum Robert Capa aveva detto: «Metaforicamente parlando, il suo lavoro cade a metà tra le gambe di Marlene Dietrich e la
vita amara dei lavoratori migranti nei campi di patate».

Erano stati proprio gli scatti di Marlene Dietrich, realizzati dalla Arnold per un inaspettato colpo di fortuna (il collega incaricato aveva dato forfait all’ultimo momento) negli studi della Columbia records a New York, mentre la divina – da mezzanotte all’alba, secondo le rigorose prescrizioni dell’astrologo sempre al suo seguito – registrava alcuni brani cari alle truppe alleate, a dare riconoscimento al suo originale approccio fotografico.
Dopo questo successo, la Arnold venne chiamata da Marilyn Monroe, che fotografò con regolarità dal 1955, con espressivi scatti sulla spiaggia di Long Island, fino al 1960, poco prima della morte dell’attrice, quando venne mandata nel deserto del Nevada sul set de Gli Spostati di John Huston. Qui ritrasse la donna più desiderata di Hollywood in momenti che ne mostrano quei tormenti e quella fragilità che, col senno di poi, ne preannuciavano la tragica fine.
Con piglio tutto femminile, la Arnold riusciva a instaurare rapporti di complicità ed empatia con i suoi soggetti.
È accaduto con star come la capricciosa Joan Crawford, che ritrasse (anche) nelle sue estenuanti sezioni di trucco prima di andare sul set, così come in ambienti apparentemente ancora meno congeniali al suo essere una fotografa e una donna dalla pelle bianca.
La sua vicenda professionale – iniziata quando aveva 37 anni, e grazie al provvidenziale quanto inaspettato regalo di un amico, una macchina fotografica Rolleicord – prese il via dal suo trasferimento da Philadelphia a Long Island per seguire, a New York, un corso di fotografia alla New School for Social Research tenuto da Alexey Brodovitch, leggendario art director di Harper’s Bazaar. Per quella che noi chiameremmo la tesina da studente, la Arnold scelse di documentare una sfilata di moda di stilisti afroamericani in una chiesa sconsacrata di Harlem, scegliendo di stravolgere l’estetica patinata delle riviste di moda di quel periodo ritraendo la spontaneità delle modelle dietro le quinte, la trepidazione del pubblico e l’ambiente fosco e saturo di fumo in quello che, allora, era un ghetto. Sebbene quelle immagini fossero state giudicate addirittura scandalose dai giornali americani, la Arnold riuscì a pubblicare la sua interpretazione della black fashion nel 1951, sulla rivista britannica Picture Post, e poi su altre riviste europee. E fu grazie a queste che si fece notare da Henri Cartier-Bresson che la invitò a preseguire quella strada fuori dagli schemi e la invitò alla Magnum. Tant’è, la Arnold avrebbe via via affrontato con semre maggiore frequenza temi caldi, e caldi ancora oggi, come il razzismo e le lotte per l’emancipazione delle minoranze. Venne scelta da Malcolm X (del quale scattò quello che è senza dubbio il suo ritratto passato alla storia) per documentare i raduni dei Black Muslim.

Eva Arnold, Magnum Photos
Poi, le si dispiegò davanti il mondo intero, con reportage come quello realizzato insieme a Bruce Chatwin in India, culminato con l’incontro con Indira Gandhi. O quello, altrettanto forte e ancora di pressante attualità che la portò in Medio Oriente e Afghanistan seguendo l’ispirazione datale in Tunisia dallo storico discorso del presidente Habib Bourghiba che incitava le donne a togliere il velo e abbracciare la modernità. O, infine, quello che l’aveva fatta entrare nell’olimpo dei fotografi della guerra del Vietnam, sebbene non avesse mai messo piede in quel matroriato paese del Sudest Asiatico. Le sue immagini dell’addestramento dei soldati in un finto villaggio vietcong ricostruito nel Maryland sono forse le più pregnanti riguardo all’assurdità di qulla guerra. E di tutte le guerre.