Frames Blog Federico Serrani

L’Arte liberata in mostra a Roma

29 Gennaio 2023

di Jasmina Trifoni

Se la storia avesse preso un altro – orribile – corso, il museo più grande del mondo (!) sarebbe oggi nella cittadina austriaca di Linz. Così avrebbe voluto Adolf Hitler, che si considerava un esperto d’arte e, a parere suo (ma soltanto suo) era un pittore di talento. Del museo scrisse nel Mein Kampf, e andò oltre: ci sono i progetti e un plastico dell’edificio a testimoniarlo.
Addirittura, la visione megalomane del museo dedicato al popolo del Terzo Reich non lo abbandonò nemmeno quando tutto era ormai perduto. Ne scrisse, e con profusione di particolari, nel testamento autografo lasciato sulla scrivania, poco prima di suicidarsi. Va da sé, l’arte italiana – dall’Antica Roma al Rinascimento, e oltre – avrebbe avuto un posto d’onore. E c’è da scommettere che al centro di una sala ci sarebbe stata la splendida figura marmorea del Discobolo Lancellotti (II secolo d.C.), che Hitler aveva voluto come simbolo delle Olimpiadi di Berlino del 1938 perché le forme perfette dell’atleta erano, sempre a parer suo, la rappresentazione per eccellenza della superiorità della razza ariana.
Dietro pagamento di una somma considerevole, la statua era stata parte di quell’insieme di tesori dell’arte che l’amico Mussolini agli aveva gentilmente concesso di portarsi in Germania, sebbene già allora fosse in vigore una legge lo vietava. In quell’occasione, a nulla erano valse le rimostranze ufficiali del Ministro dell’Educazione Giuseppe Bottai, un fascista moderato che per questo sarebbe irrimediabilmente uscito dalle grazie del Duce. E che, all’indomani dell’inizio della seconda guerra mondiale, avrebbe elaborato un piano per la messa in sicurezza del patrimonio culturale italiano. Invece che a Linz, la storia ha voluto che il Discobolo Lancellotti tornasse in Italia, al Museo Nazionale Romano. E quel capolavoro scultoreo è il prestito fino al 10 aprile, sempre a Roma, alle Scuderie del Quirinale, a introdurre l’esposizione Arte liberata 1937-1947 – Capolavori salvati dalla guerra. Provenienti da decine di musei italiani, le cento opere in mostra – tra le quali la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, la Crocefissione di Luca Signorelli, l’Enrico VIII di Hans Holbein il Giovane, il Ritratto di Manzoni di Francesco Hayez, dipinti di Bellini, Lotto ed El Greco (tra gli altri), e poi statue, arazzi, reperti archeologici e sacri testi ebraici – sono forse l’elemento meno “rivelatore” di un percorso espositivo intelligente, appassionante e a tratti commovente.

Arte liberata è innanzitutto una mostra di storie, narrate attraverso un’eccezionale documentazione fotografica e da una serie altrettanto straordinaria di filmati e materiali audio dell’Istituto Luce. Aggirandosi per le sale, non sfugge l’ironia del contrasto tra le immagini di monumenti distrutti, chiese protette da sacchi di sabbia e uomini intenti a scavare tra le macerie con il sonoro di arroganti proclami del regime o del coro del “Vincerem”. A intrecciarsi lungo tutto il territorio della nostra Penisola, le storie sono quelle degli uomini e delle donne che, rischiando la pelle, cercarono con ogni mezzo – e con scarsi mezzi a disposizione – di mettere in salvo una quantità immensa di opere d’arte dalle brame dei nazisti. Tra costoro, è di particolare spicco la figura di Pasquale Rotondi, allora giovane soprintendente alle Belle Arti delle Marche, che venne incaricato da Bottai di approntarne un deposito nazionale e ne nascose nei sotterranei delle rocche di Sassocorvaro e Carpegna, entrambe nel territorio di Urbino,
circa 10mila provenienti dai palazzi di Venezia, Milano, Roma e Urbino. Rotondi, poi, trascorse gli anni del conflitto dormendo sonni non troppo tranquilli con la grande tela della Tempesta di Giorgione nascosta sotto il letto.
Gli aneddoti sulle rocambolesche imprese di Rotondi sono moltissimi e raccontano come spesso sia stato baciato da incredibili colpi di fortuna. Come quando, subito dopo l’Armistizio, i nazisti arrivarono a Carpegna in cerca di tesori da depredare: riuscirono a trovare alcune casse, ma per fretta ne aprirono soltanto una che conteneva gli spartiti autografi di Gioacchino Rossini. Li liquidarono come carta straccia e se ne andarono a mani vuote.


L’ultima sala della mostra è dedicata al periodo bellico successivo allo sbarco delle truppe americane in Sicilia e alle operazioni di recupero delle opere d’arte finite oltreconfine. Qui viene tributato un doveroso omaggio al toscano Rodolfo Siviero passato alla storia – seppure sottotraccia – come lo 007 italiano dell’arte. È ritratto in poltrona, in ammirazione della Danae di Tiziano
trafugata a Cassino nel 1943: dopo mille peripezie, era riuscito a scovarla nell’abitazione di Göring, che l’aveva usata come testiera del letto. Siviero – che alla fine della guerra era stato nominato Ministro plenipotenziario per il recupero dei beni artistici – aveva lavorato a stretto contatto con i celebri Monument Men americani. Anche a loro bisogna essere grati, perché presero particolarmente a cuore la missione nel nostro paese. A uno di loro, che ammoniva il suo stesso esercito di tenere in conto il valore dei nostri monumenti durante le operazioni belliche, il generale Mark W. Clark rispose, con una frase diventata famosa: «Fare la guerra in Italia è come combattere in un foxxxxto museo!».

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