
Loro, Muholi
30 Marzo 2023
di Jasmina Trifoni
Muholi preferiscono non essere definiti artisti, bensì attivisti visivi, perché l’arte è soltanto lo strumento che hanno scelto per dare visibilità ed empowerment alla comunità alla quale appartengono. Come hanno detto in una recente intervista, “il nostro non è una professione, ma uno stile di vita, 24 ore a giorno”. La comunità in questione è quella LGBTQIA+ (lesbian, gay,
bisexual, transgender, queer, intersex, asexual+) del Sudafrica, dove Muholi sono nati poco più di cinquant’anni fa. Se oggi è considerato il paese più avanzato del continente – è stato il primo, nel 2006, a legalizzare i matrimoni tra persone dello stesso sesso – il Sudafrica è anche quello in cui, durante l’Apartheid, la gente di colore è stata deprivata della sua storia visiva. E dove ancora oggi la comunità queer viene spesso minacciata dal pregiudizio e dalla violenza.
È di questi ultimi mesi la decisione di Muholi di obliterare il nome con cui sono stati chiamati alla nascita, Zanele, in quanto sancisce un genere al quale non sentono di appartenere, scegliendo invece di identificarsi soltanto con il cognome. Hanno anche chiesto espressamente di usare un linguaggio non binario e il pronome they-them-their (loro) quando si parla di o si scrive di Muholi. In italiano, che è una lingua fortemente binaria, scrivere – e pure leggere – di Muholi al plurale è un challenge. Ma ci proviamo.
Usando il media della fotografia, Muholi sono entrati nel novero degli artisti più influenti della loro generazione, e su scala globale. Dopo la consacrazione in una serie di biennali d’arte e istituzioni internazionali (sono nella collezione del Guggenheim di New York e dello Stedelijk di Amsterdam, tra le altre) l’anno scorso sono stati celebrati in una grande retrospettiva alla Tate Modern di Londra. E oggi, e fino al 21 maggio, ne è in corso una, altrettanto importante, alla Maison Européenne de la Photographie di Parigi, mentre il Mudec di Milano ha appena inaugurato una mostra, visitabile fino al 30 luglio, che riunisce 80 potentissimi autoritratti di Muholi. In un feroce bianco e nero, con i toni scuri drammaticamente saturati a creare un effetto che è quasi tridimensionale, questi scatti, stampati in grandi dimensioni, sono parte della serie – iniziata nel 2012 e non ancora conclusa – dal titolo Somnyama Ngonyama (“Ave Leonessa Nera”, in lingua zulu) nel quale l’artista, che allora si riconosceva ancora nel singolare, aveva scelto di puntare su di sé l’obiettivo fotografico iniziando così a esporsi in prima persona. E attuando così, attraverso la ripetitività ossessiva della serie, una trasformazione in plurale, icona di un’identità collettiva della
comunità nera omosessuale sudafricana. In gran parte degli autoritratti gli occhi di Muholi ci osservano, in uno sguardo profondo e ipnotico che a volte è di sfida, a volte esprime fierezza o persino tenerezza, in una sorta di affermative action che grida: nero (e queer) è bello, ha coraggio e dignità e merita di essere compreso e rispettato.
La preparazione degli scatti di Muholi è di per sé una performance artistica, perché la figura degli artisti è stata adornata di oggetti di uso quotidiano apparentemente banali, si tratti di acconciature fatte con le mollette per la biancheria, stracci, pelli di animali o collane di cavi elettrici, copertoni di auto, spille da balia o guanti chirurgici, il tutto a creare composizioni di ipnotica bellezza e di forte valore simbolico. Muholi invitano a leggerle al di là del loro valore estetico, soffermandosi a riflettere sul messaggio identitario che trasmettono.
Se la mostra milanese racchiude anche un’installazione site specific, in quella parigina, che conta 200 opere tra fotografie e materiali video, sono esposte anche le altre serie del percorso artistico e politico di Muholi, anche a colori, da Brave Beauties – nella quale sono stati ritratti membri della comunità queer e transgender, in Sudafrica e all’estero – a Faces and Phases, un’originale narrazione dell’identità lesbica. In entrambe si percepisce che le persone protagoniste delle immagini non sono meri soggetti al servizio dell’arte, ma partecipano alla creazione di una storia che vuole – e deve – uscire dalla marginalizzazione. Non a caso, Muholi ha avviato una scuola di fotografia nelle township di Johannesburg e ha creato il collettivo Inkanyuso (o “Luce”, in zulu), una piattaforma mediatica per l’espressione libera e consapevole della comunità LGBTQIA+ del Sudafrica.