
Ossessioni giapponesi
27 Aprile 2023
di Jasmina Trifoni
«Quella delle gambe della mia ragazza in calze a rete. Gliene avevo scattate molte, consumando due rullini, e poi ci avevo messo tre ore a stamparle». Aveva risposto così Daido Moriyama all’intervistatore che gli aveva chiesto quale considerasse la fotografia più bella che avesse mai scattato. «Essere un fotografo», aveva continuato «significa combattere perennemente con
infiniti frammenti. La macchina fotografica mi permette di andare molto vicino al soggetto e catturarne i dettagli. Ai miei occhi, il mondo è molto erotico. E quelle calze ne sono un esempio perfetto».
Del resto, l’erotismo – colto anche in oggetti inanimati e apparentemente banali, con i quali crea decadenti still life che varcano il confine del feticismo – è la cifra di Moriyama che, nato a Osaka nel 1938, è il maestro indiscusso della street photography giapponese, ispiratore di intere generazioni di fotografi, e non soltanto in patria. È di imminente uscita Daido Moriyama: A Retrospective (Prestel Publishing, in collaborazione con la Daido Moriyama Photo Foundation), il volume definitivo sui cinquant’anni della sua carriera. Racchiude, in ordine cronologico, 250 immagini iconiche, da quelle di una notte trascorsa con un’amante in un love hotel scattate per Provoke che negli anni settanta è stata la rivista cult della contestazione giapponese) alla serie di immagini che aveva raccolto, bruciandone poi i negativi, in una sorta di performance concettuale, nel libro Farewell to Photography, fino a quelle rubate nelle strade di Tokyo. Sebbene – come quelle della serie Pretty Woman – il libro ne contenga alcune a colori, è evidente che Moriyama preferisca esprimersi con il bianco e nero.
E si tratta di un bianco e nero contrastato fin all’estremo, sporco, graffiato, dove le presenze umane sono quasi sempre e volutamente fuori fuoco, in una documentazione tanto meravigliosa quanto ossessiva del lato oscuro, ed erotico, dell’esistenza.
Ossessivo, per usare un blando eufemismo, è anche il lavoro di un altro grande maestro della fotografia giapponese, Masahisa Fukase, al quale, fino al 6 giugno, il Tokyo Photographic Art Museum dedica una retrospettiva, pubblicando anche un volume sulla sua opera. Nato sull’isola di Hokkaido nel 1934, e morto nel 2012 dopo essere rimasto vent’anni in coma in seguito a una
caduta, da ubriaco, da una scala di un bar nel quartiere tokyoita di Shinjuku, negli anni settanta Masahisa era stato fondatore, insieme allo stesso Moriyama e a Nobuyoshi Araki, della Workshop Photography School di Tokyo. Ma, dopo i primi anni di successo internazionale, si era isolato dal resto del mondo ed era stato quasi dimenticato per tornare all’attenzione internazionale soltanto dopo la morte, quando si è potuto accedere ai suoi archivi.
Il primo, ossessivo dei suoi soggetti fotografici era stata la sua seconda moglie, Yoko, che ritrasse ogni giorno con il teleobiettivo, dalla finestra, appena uscita di casa per andare al lavoro. Nella serie From Window (1973), la donna appare mentre lo guarda, ora amorevole, ora seccata, mentre gli fa le linguacce o gli rivolge quelli che con ogni probabilità sono degli improperi. Del resto, il loro rapporto privato divenne presto un’ossessione artistica. E dopo 13 anni, Yoko, esasperata, lo lasciò.
La separazione portò Masahisa a rifugiarsi nell’alcol e a tornare a Hokkaido dove produsse quella che è la sua serie più famosa, Ravens (1986), nella quale i corvi, anche questi ritratti ossessivamente, in un cupo bianco e nero, rappresentano allo stesso tempo l’ombra della moglie e l’alter ego del fotografo. In seguito sarebbe tornato a Tokyo, rivolgendo l’obiettivo al suo gatto,
Sasuke, e infine a se stesso, ritraendosi 444 volte in vasca da bagno in una serie, Bukubuku (1991) che lui stesso considerava il suo capolavoro: «Ogni scatto è una pietra tombale», aveva detto.
Tant’è, almeno nei circoli dei connoisseur più raffinati,Masahisa è riconosciuto come il padre e il grande maestro del selfie, da molto prima che questo termine e, con Instagram, questa ossessione diventassero troppo diffusi, a tutte le latitudini. Tanto da diventare sintomo della sindrome ossessivo-compulsiva dei nostri tempi, non vi pare?