
Se le folle oggi ci sembrano follia, e le immagini di questo tempo perdono di universalità
1 Maggio 2021
parole di @ale_theia
Nell’ultimo anno, soprattutto durante il primo lockdown, ci siamo abituati a quelle immagini quasi metafisiche delle città vuote, condizione ideale per quei fotografi di architettura abituati a scegliere per i propri scatti le primissime ore della giornata, nella speranza di evitare comparse indesiderate all’interno dell’inquadratura. Stando a considerare solo il loro valore estetico, in qualche modo possono averci affascinato. A me le linee dritte e pulite degli edifici, prive di elementi di disturbo che con il loro movimento, i colori, gli abiti che segnano un’epoca si impongono, ipnotizzano.
Leggendo però tali immagini nel periodo storico che stavamo e stiamo vivendo, assumevano un’atmosfera quasi inquietante, perché corrispondevano alla paura della malattia, ai divieti, alla dimostrazione che quella pandemia globale era realmente in atto. Quelle fotografie potenzialmente immortali, perché non collocabili in un’epoca da pettinature, modelli di jeans, magliette e borse alla moda e così via, restano comunque inscindibili dal 2020 coi loro inediti deserti.
Le fotografie scattate nel 2021 ci parlano irrimediabilmente di mascherine, come quelle dell’anno precedente, confondendosi con qualche scatto più vecchio che arriva dall’Oriente, dove questo dispositivo di protezione delle vie respiratorie era già utilizzato anche per contrastare lo smog e altri virus.
Fotografie di fine gennaio come quelle di Adelaide, in Australia, dove si è svolto il primo grande evento internazionale sportivo con un pubblico accalcato sugli spalti per l’amichevole tra Jannik Sinner e Novak Djokovic, senza mascherina, grazie a misure che l’hanno reso Paese Covid-free dallo scorso novembre, sono diventate virali su Twitter e gli altri social perché sembravano un viaggio nel tempo, passato o futuro.
Tutte le fotografie di quest’ultimo anno e mezzo, come quelle scattate in qualsiasi altro giorno di un qualsiasi altro anno, sono documenti del tempo in cui viviamo e raccontano molto dell’umanità in un determinato momento storico. Dalle immagini di Martin Parr che raccontano la nostra ossessione per i selfie, in cui si riconosce lo stesso sguardo e una stessa umanità rispetto a quella che il fotografo inglese raccontava per esempio nel 1984. cambiano irrimediabilmente gli abiti, i mezzi tecnologici e le nostre priorità, oltre alla predilezione per il colore abbracciata pochi anni dopo e per sempre.
Senza attraversare la Manica, penso al nostro Gianni Berengo Gardin nazionale, che non cambia macchina fotografica o pellicola, ma nel suo obiettivo vede molto altro. Le mascherine infestano fotografie che fanno necessariamente parte di questi anni Venti e che ci illudono di non poter rendere le foto immortali. D’altra parte, proprio per tutti quegli elementi di cui abbiamo parlato nelle righe precedenti, dalle pettinature ai vestiti, dalla vita dei pantaloni ai modelli dei telefonini, fino alla conformazione delle grandi città sempre in cambiamento, quale immagine di street photography o documentaria può essere astraibile da un certo periodo di tempo? Forse quella di nudo, forse quella che indaga culture lontane dalla civiltà che ci accomuna.
Basta sfogliare i cataloghi delle agenzie come Magnum o i vincitori del premio World Press Photo 2021 per rendersi conto di quando le immagini o molte di esse siano inscindibili da questo tempo, da quelle sull’ambiente in cui una foca nel mare si trova a giocare non più con il classico sacchetto di plastica ma con mascherine disperse nell’ecosistema, a quelle sociali, in cui un abbraccio diventa un’esperienza mistica, le vittime si moltiplicano e il volto di chi lavora in prima linea negli ospedali porta segni che sembrano indelebili. L’unica cosa che non cambia mai, forse, è la bruttezza della guerra.
E mentre anche le app che ci tengono in contatto, per piacere e per lavoro, si inventano nuovi e bizzarri modi per farci sentire più vicini – vedi l’ultima trovata di Zoom – l’inconscia speranza è di tornare a riconoscersi in quelle immagini in cui le mascherine non esistevano ancora, gli assembramenti non suscitavano in noi preoccupazione, ma al massimo un po’ di claustrofobia, e ognuno di noi aveva il proprio nemico da combattere. Ne parleremo ancora e meglio con un ospite speciale il prossimo 17 maggio.