
Senza mezzi termini: i contrasti di Giorgio Galimberti, fotografante in cerca d’autore
17 Luglio 2020
Molti dei nostri caratteri e delle nostre inclinazioni le ereditiamo dai genitori, come succede con l’aspetto fisico, la statura, certi dettagli, dalla forma delle unghie delle mani e delle orecchie al modo di camminare. Anche le passioni, con cui spesso veniamo nutriti da piccoli, diventano eredità, e mi chiedo sempre se siano contenute già nel nostro DNA o se invece ci vengano trasmesse con un certo tipo di educazione: quella che solleva il nostro interesse, che ci fa scoprire di poter essere bravi in qualcosa o che ci permette di condividere del tempo accanto a un genitore e di imitare i nostri primi modelli.

Giorgio Galimberti è nato a Como, nel 1980, e ha iniziato a fotografare fin da bambino: “Sono figlio d’arte,” racconta, “ho iniziato seguendo mio padre, a partire da quando avevo 7-8 anni, passando con lui le serate in camera oscura o nei circoli fotografici, quindi ce l’ho dentro da sempre.” Il primo incontro è stato con le pellicole istantanee a colori, quelle con cui il padre Maurizio è diventato celebre in tutto il mondo. Poi, dopo un momentaneo abbandono, in età ormai adulta Galimberti è tornato a fare fotografia alla ricerca del proprio stile.

Ha concentrato la sua cifra sull’utilizzo del bianco e nero e su contrasti violenti, in cui luci e ombre disegnano in modo grafico le immagini, soprattutto all’interno di paesaggi urbani dal sapore metafisico. Un bianco e nero che Galimberti, che non ha mai amato molto il grigio e che ha sempre confessato di ispirarsi al maestro Mario Giacomelli, definisce “senza mezzi termini”. “La fotografia è lo scrivere con la luce, diciamo che mi è piaciuto estremizzare questo concetto,” racconta, e spiega come l’eredità, per lui sia tutto. “In fotografia, nel cinema, nell’arte, è già stato fatto tutto e ci troviamo la strada spianata dai maestri. La fortuna che abbiamo è di poter guardare a loro, per formarci.” Poi, interpretare e mettere a frutto questa eredità sta a noi,

“Sicuramente,” continua Galimberti, parlando delle sue influenze, “sono stato ispirato anche dalla grande metamorfosi che ho visto fare a Milano, che mi ha sempre affascinato per la sua dimensione metropolitana: una città che da buia, grigia e triste si è elevata e che anche le archistar hanno infatti scelto.” Allo stesso modo, i mobilifici di Meda hanno scelto per disegnare i loro oggetti architetti e designer come Le Corbusier, Citterio, Ponti, Mendini. Galimberti, che a Meda è cresciuto, non ha ereditato solo la passione per la fotografia, ma anche il primo lavoro: “A vent’anni ho iniziato come geometra nell’impresa edile di famiglia, che ha sempre avuto un occhio di riguardo verso il design e verso il futuro.”
Tante delle cose che Galimberti ha imparato, racconta, “le so grazie alla fotografia: ero un geometrino di Meda, non avevo questa grande curiosità verso il mondo, finché poi la fotografia ha aperto i miei orizzonti in modo esponenziale.” Quando gli chiedo quando ha iniziato a sentirsi davvero un fotografo, mi risponde che non si definisce ancora adesso in questo modo. Una cosa, mi spiega, è essere “fotografo”, un’altra essere un “fotografante”, ed è giusto non sentirsi mai fotografo fino in fondo. “Sono soddisfatto della strada che ho percorso fino adesso, ma sono una persona a cui piace sempre guardare avanti, per alzare sempre di più l’asticella. A me, un giorno, piacerebbe potermi definire un un autore.”