Frames Blog Federico Serrani

Storie di tre fotografie che hanno fatto la storia

28 Settembre 2023

di Jasmina Trifoni

 

Per essere bella – o meglio, buona – una fotografia deve avere una qualità assoluta e imprescindibile. Deve parlare da sola. Non ha bisogno di essere spiegata perché ha già tutto dentro di sé. Per catturare l’attenzione, e provocare sentimenti – un intero universo di sentimenti, positivi o negativi – e lasciare il segno. Fin qui siamo nell’ovvietà. È anche ovvio pensare che un fotografo, un buon fotografo, sappia esattamente che cosa raccontare, come farlo e per quale pubblico, già prima di scattare.
Ma non è sempre così, tanto che anche i migliori sanno che la fortuna, o “essere al momento giusto nel posto giusto”, o chiamatela come volete, ha un suo peso. O anche che una fotografia può diventare qualcosa di assolutamente diverso da quello che si era immaginato, come dimostrano queste tre storie del dietro le quinte di altrettante iconiche immagini entrate nella storia.

“La fotografia non è arte”, sosteneva Man Ray, e affermava: “Fotografo ciò che non voglio dipingere. Dipingo l’invisibile. Fotografo il visibile”. Sebbene oggi sia riconosciuto universalmente come il grande maestro, nonché l’inventore, della fotografia surrealista, Man Ray (o “Uomo Raggio”, pseudonimo di Emmanuel Radnitzky, nato nel 1890 a Philadelphia da una famiglia di origine ebraica) era un fotografo riluttante. Più che per passione, si era avvicinato alla fotografia per sbarcare il lunario quando, negli anni venti del Novecento, si era trasferito a Parigi. Aveva preso a ritrarre su commissione il bel mondo dell’epoca, poi era stato scoperto dalla moda e della pubblicità. Tant’è, Les Larmes (Le Lacrime, 1930) – che, insieme alla foto della schiena nuda “a violino” della sua musa Kiki de Montparnasse, è considerata l’immagine-manifesto del Surrealismo – ha una genesi molto prosaica. Man Ray aveva scattato quel close up di un occhio femminile dalle lunghe ciglia decorato da una manciata di lacrime di vetro su commissione di un’azienda cosmetica, la Cosmecil, per reclamizzare un nuovo, e allora rivoluzionario, mascara. Larmes fece la sua prima apparizione in pubblico sui giornali, con in calce il claim che invitava le donne a “piangere al cinema, piangere a teatro e ridere fino alle lacrime” senza timore di rovinarsi il trucco. Ma poi, negli anni,
un esercito di critici e storici dell’arte ha speso fiumi d’inchiostro a speculare sui significati reconditi di quell’occhio e quelle lacrime.


In pochi sanno chi sia Arthur Sasse (1908-1975), che fu sotto contratto dell’agenzia fotografica UPI prima di concludere la carriera come fotografo ufficiale dello zoo del Bronx. Eppure, ha scattato lui il ritratto più iconico di Albert Einstein, riprodotto milioni di volte su poster, T.shirt, mug e molto altro ancora: è stato addirittura disegnato su un campo di mais nelle vicinanze di Ulm, in Germania, la città natale dell’illustre scienziato.
Era il 14 marzo 1951, e Sasse era tra i paparazzi in attesa fuori dal Princeton Club a New York nella serata in cui si teneva una festa per celebrare il compleanno di Einstein. Spintonato dai colleghi, Sasse riuscì ad avvicinarlo soltanto quando era ormai salito sul sedile posteriore di una macchina, stretto tra sua moglie, Marie, e l’ex direttore dell’Institute for Advanced Studies dell’Università di Princeton, Frank Aydelotte. Così, si avvicinò al finestrino chiedendogli di sorridere per l’obiettivo. Invece, Einstein, che non amava le luci della ribalta, gli fece una linguaccia.
Soltanto uno dei photoeditor dei molti giornali ai quali la foto venne inviata decise di pubblicarla (gli altri, probabilmente, l’avevano considerata troppo ridicola e irrispettosa: dopotutto si trattava del più famoso premio Nobel per la fisica del secolo), ma Einstein ne fu così entusiasta da scrivere a Sasse per chiedergli di stampargliene molte copie, e per di più scegliendo lui stesso di tagliare gli altri personaggi in modo da mostrare soltanto il suo viso con lo sberleffo, incorniciato dalla sua bianca e spettinata chioma. Inoltre, e dimostrando un acuto senso dell’umorismo, il padre della teoria della relatività prese a inviarle ad amici e colleghi, sempre scrivendoci dietro un messaggio. In quella che dedicò a Johanna Fantova, la sua archivista e assistente personale, scrisse: «Questa linguaccia riflette la mia posizione riguardo alla politica attuale” (si era negli anni bui del Maccartismo). Mentre su un’altra vergò: “Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana. E riguardo all’universo non ne
sono ancora sicuro”.


Neil Leifer (1942) è una leggenda, tra i fotografi sportivi. Ha immortalato, tra l’altro, 15 Olimpiadi, tra estive e invernali, e quattro Mondiali di calcio, con le sue immagini che si sono guadagnate oltre 200 copertine. Tuttavia, Leifer ha scattato la sua foto più famosa a 23 anni non ancora compiuti, quando era il pivellino appena assunto da Sports Illustrated. Era il 25 maggio 1965, e l’evento era il secondo incontro tra Muhammad Ali e l’allora campionissimo Sonny Liston. Con strettissimo preavviso l’incontro venne spostato da una grande arena di Boston a una palestra nella cittadina di Lewiston, nel Maine, per garantire la sicurezza di Ali, che aveva cambiato il suo nome da Cassius Clay in appoggio al movimento della Nation of Islam in seguito all’assassinio di Malcom X. In quella palestra i posti riservati alla stampa erano limitati e Leifer si era dovuto alzare per cedere il posto a Herb Scharfman, il decano dei reporter di Sports Illustrated, e, insieme a John Rooney dell’Associated Press, si era dovuto arrangiare, posizionandosi dall’altra parte del ring rispetto a buona parte dei suoi più blasonati colleghi. Fortuna volle che, ad appena 1 minuto e 44 secondi dall’inizio dell’incontro, Alì mandasse al tappeto Liston con quello che sarebbe diventato famoso come il suo “pugno fantasma” proprio davanti a Leifer e Rooney. Il secondo scattò un’infinità di fotografie in bianco e nero con una pellicola Tri-X in formato 35mm, che allora vennero pubblicate sui quotidiani di tutto il pianeta (una di esse, in quello stesso anno, vinse il World Press Photo nella categoria Sport). Mentre, del fatidico momento del knock out, Leifer – che aveva scelto una pellicola Ektachrome, e quindi a colori – aveva
scattato soltanto un’immagine con il suo lentissimo apparecchio Rolleiflex. Ebbene, soltanto nel 1999, nella sua edizione dedicata alle foto del secolo, Sports Illustrated ha messo in copertina la straordinaria foto di Neil Leifer, giudicando che il colore, il formato quadrato, la luce perfetta sui corpi di Muhammad Ali e del suo avversario al tappeto, e con l’oscurità che li circonda fosse, semplicemente, perfetta. Anzi, iconica.
Ironia della sorte, Herb Scharfman, che aveva obbligato Leifer a cedergli il posto prima dell’incontro, è stato immortalato nella fotografia, passando alla storia (o almeno in quella dei quiz televisivi americani) come il fotografo che si trova tra le gambe di Muhammad Alì. Quanto a Leifer, il suo motto è diventato: “One shot, one kill”.

 

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